20200307_Massimo_Recalcati_Covid_Panico

La prima reazione motoria di fronte a un pericolo è quella di darsi alla fuga; allontanarsi il più in fretta possibile dalla minaccia incombente. La paura è la risposta emotiva che segnala e localizza il pericolo in un oggetto determinato mobilitando il nostro distanziamento rapido. Ma quando - come sta accadendo con l'epidemia del coronavirus - la minaccia non è localizzabile, quando sfugge ad ogni determinazione? Quando la sua presenza è invisibile e delocalizzata? Clinicamente siamo di fronte al passaggio obbligato dalla paura all'angoscia; il sentimento dell'angoscia, infatti, diversamente da quello della paura, non si scatena più di fronte ad un oggetto minaccioso.

A rigore l'angoscia non ha un oggetto: è, diversamente dalla paura, come ripete Freud, "senza oggetto". Il pericolo viene dunque avvertito ovunque proprio perché non è più localizzabile. La sua delocalizzazione non genera più paura, ma angoscia o panico. La natura protettrice della paura viene meno, l'argine della fobia crolla. Se nei confronti dell'oggetto fobico (un serpente, un aereo, un burrone) basterebbe il suo evitamento per evitare la nostra angoscia, nel caso della circolazione del virus la strategia dell'evitamento diventa impossibile proprio a causa dell'indeterminazione dell'oggetto minaccioso. L'angoscia del contagio sparpaglia, infatti, l'oggetto temuto ovunque; nelle mani, nella bocca, nel denaro, nelle maniglie delle porte, nei vestiti, sui mezzi pubblici, insomma in ogni oggetto del mondo. Non a caso riscontriamo attualmente nei nostri pazienti il moltiplicarsi delle crisi di panico o di comportamenti fobici caratterizzati dal ritiro sociale, dall'autoreclusione, dall'isolamento, dal timore di ogni forma di contatto.

Da un altro punto di vista, strettamente correlato a questo passaggio dalla paura all'angoscia, questa epidemia mette in scacco anche la forma collettiva più potente di difesa dalla minaccia, quale è la difesa paranoica. L'individuazione di un nemico esterno (di una razza inferiore, di un ceto sociale, di una ideologia) consente di canalizzare l'inermità passiva dell'angoscia collettiva in un atteggiamento attivo di difesa. Se riusciamo a identificare il nemico, si tratta di combatterlo apertamente, di rigettare con forza la sua presenza tra noi. È l'esistenza di un nemico localizzabile esternamente (l'ebreo, il negro, il migrante, il cinese) a cementificare paranoicamente il corpo sociale inspessendo i suoi confini difensivi.

È sempre l'esistenza del nemico (dell'estraneo, dello straniero) che consente di rinsaldare paranoicamente la nostra identità. Talvolta addirittura producendo un effetto di massa euforico; l'euforia di essere uniti contro gli ebrei, gli omosessuali o i migranti per esempio. È questa una tendenza che ha coinvolto pesantemente l'ultima stagione politica dominata da una evidente passione securitaria per il muro, l'argine, la militarizzazione del confine. Ma se, come accade per il coronavirus, l'identificazione del nemico non è più possibile? Se la presenza dello straniero non abita al di là delle nostre frontiere ma si diffonde tra noi, o, addirittura, si innesta nei nostri corpi? È quello che sta accadendo: la difesa paranoica di fronte alla minaccia dell'estraneo si è smembrata dando luogo a una frantumazione della massa e, di conseguenza, ai fenomeni del panico e del ritiro sociale. Il sentimento solido e collettivo dell'identità - prodotto dalla difesa paranoica - è stato sostituito da quello fragilissimo dell'inermità individuale; ci sentiamo soli e senza protezione. Per questa ragione l'angoscia del contagio porta con sé la presenza inconscia o conscia della morte. Contraddicendo irrazionalmente i dati della scienza, la percezione comune di questo virus è che esso sia profondamente associato ad un alto rischio mortale.

Non è un caso; quando il corpo sociale si vive come inerme, impotente ed esposto al flagello della malattia, quando i meccanismi di difesa non sono più in grado di presidiare i confini della nostra identità e della nostra salute, la morte - che il discorso contemporaneo tende a rimuovere in tutti i modi possibili - ritorna come il protagonista assoluto e inquietante della scena.

Articolo apparso su: la Repubblica

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