Curare: per Platone significa dedicare il nostro tempo alle cose degne d’amore; per il Vangelo preoccuparsi di quella grande responsabilità che si trova sulle nostre spalle e che chiamiamo “vita”. Per un infermiere significa spendere ancora venti minuti in ospedale pur di vedere un paziente felice. Per un’insegnante sorridere ai progressi del ragazzo.
La Cura è una “pratica”, un’attitudine, un impegno all'attenzione, uno sguardo attento.
Una figura, dall'alto della sua potenza, modella del fango, si sporca le mani, ama la sua creazione: sembra un uomo, un piccolo essere dotato di ragione ma ancora immaturo, fatto di terra. Sta a Giove, con il suo soffio, donare uno spirito di vita all'uomo che, però, non ha un nome. È compito della Cura assegnarlo, è stata colei a “impastare” la vita.
È bello pensare di essere nati grazie ad un’attenzione, ad uno sguardo premuroso: siamo esseri vulnerabili, incompiuti, dipendenti dagli altri. Cerchiamo una forma, una ragione alla nostra esistenza e lo facciamo senza prendere fiato. Corriamo, ci dimeniamo, non ci fermiamo nemmeno un secondo: per questo motivo non capiamo che tutto ciò che ancora non conosciamo si racchiude nell’Altro.
Una delle sensazioni che più abbiamo provato, durante il periodo del lockdown è stata, senza dubbio, quella di “incompiutezza”. Non avevamo i mezzi, le possibilità e le occasioni per renderci felici: ci mancava un confronto, un rapporto di vicinanza con chi è, per noi, la Cura.
Luigina Mortari ha sottolineato: “In momenti come questo, viene a galla il vero essenziale”, mettendo in evidenza, così, la nostra capacità e necessità di farci del bene a vicenda.
Chiudete gli occhi e cercate di visualizzare: che cosa è superfluo?